martedì 13 agosto 2013

Storie di persone comuni che cercano di vivere il Vangelo


Tutto in una vita: dalla polaroid all'era digitale. Le riflessioni del direttore del Centro ELIS di Roma


Siamo a Casere, un paesino nell’alta valle Aurina, e non ero mai stato a Messa in un’ospizio, seduto in mezzo a tante persone anziane in condizioni di salute piuttosto precarie. Ognuno di loro era lì per motivi diversi: chi non aveva figli o non era più in grado di stare da solo in casa e non poteva vivere con i propri cari. Chi invece godeva di una pensione talmente bassa da non potersi permettere una badante. Tutti avevano lo sguardo e l’espressione particolarmente seria, sembrava stessero aspettando il giorno e l’ora in cui Nostro Signore li avrebbe chiamati. Nessuna prospettiva, nessun progetto, nessuna ambizione o preoccupazione sulle prossime vacanze o su quale sarà il prossimo partito che vincerà le elezioni.
Vicino Tiro nel sud del Libano, vi è un grande santuario dedicato alla Madonna dell’attesa, molto venerata da quelle parti. La Madonna che attende Gesù impegnato nei suoi giri tra la gente a predicare. Intorno c’è una grande pianura che lambisce il mare. Sembra di vederla la Madonna, magari seduta su una pietra che attende di scorgere Gesù in lontananza che tarda ad arrivare. Nel cuore di ciascuno, quando si è giunti ormai all’ultimo miglio, vi è il desiderio di aspettare il volto di Cristo che finalmente si materializza.
La mattina dopo mia moglie mi chiede di raggiungere la vetta d’Italia a pochi chilometri dal nostro appartamento. Giunto in quota, si presentò davanti ai miei occhi uno spettacolo a dir poco strepitoso: le meravigliose montagne austriache e quelle italiane affollate e sovrapposte all’orizzonte. Mi siedo e mi volto verso il sentiero dal quale ero salito ed ho visto, come attraverso una polaroid, le numerose tappe della mia esistenza. Capita che restiamo troppo spesso prigionieri del contesto che ci influenza condizionandone i comportamenti. Rivedo mio padre fiero della nascita del suo primogenito imbacuccato in una copertina celeste. Rivedo quel quartiere, quelle amicizie, quei vicini, quel particolare momento storico: gli anni '60. I pomodori a cuore di bue, le salsicce solo quelle del contadino, la pasta fatta in casa, polli soltanto quelli casarecci. Questo ed altro per vivere meglio erano le regole d’oro dei miei genitori entro le quali siamo cresciuti.
Un quartiere popolare dove le strade erano quelle di un paese pieno di piccoli negozi alimentari. Come
non avrei potuto frequentare “Formaggino” il cui vero nome era Fabio e con il quale passavamo pomeriggi interi vivendo appassionate partite con le biglie. Come non avrei potuto conoscere Walterino, “Er ciccio”, col quale giocavamo a figurine della leggendaria panini, sui cofani delle autovetture parcheggiate sotto casa. Mio padre faceva spesso le notti, era poliziotto, c’era poco in casa ma ha condizionato molto la mia vita tenendomi sempre dentro la zona bianca anche se a me spesso piaceva camminare sui bordi del precipizio. Mia madre, buona, generosa fino all’inverosimile ma altrettanto furba da tenere sempre i conti sotto controllo. 
Avevamo dei parenti anche noi, alcuni rumorosi, altri silenti e che avevano bisogno della nostra allegria durante le feste. Mia zia Emma aveva più di 80 anni, da giovane faceva l’ostetrica e girava per il quartiere con un cappellino con la veletta. Era conosciuta da tutti i ragazzini delle varie vie perché se per assurdo il pallone le capitava addosso o le colpiva il suo prezioso turbante, erano guai per tutti. Avevo pure una zia suora, la sorella di mia nonna, madre superiora salesiana in via Marsala, vicino la stazione Termini. Sotto casa, nascosti dietro le macchine le prime sigarette di cartone, arrotolando la carta del pane, poi le prime bande per provare l’ebbrezza dello scontro fisico. E poi Acca Larentia, l’assalto alla sezione del Movimento Sociale Italiano dove persero la vita tre ragazzi che conoscevo. Quel fatto cambiò la vita del quartiere ed inasprì le regole familiari. Si usciva fino ad una certa ora ed eravamo più sorvegliati dai genitori, nonostante fossimo ormai maggiorenni da un pezzo.
Come sarei diventato quello che sono se non avessi vissuto un tenore di vita di una classe sociale medio bassa che poteva permettersi la vacanza al mare soltanto facendo su e giù da Roma fino ai cancelli di Castel Porziano, a Ostia o al massimo fino a Torvaianica, con la mitica fiat 600. Zio Enzo di Tor Sapienza portava il super otto per fare i filmini che rivedevamo a Natale, poi ingaggiava delle sfide interminabili a braccio di ferro sul tavolinetto da pic-nic. Dopo pranzo i grandi giocavano a briscola mentre io restavo sempre in silenzio a guardare ammirato la faccia di mio padre che si arrabbiava col compagno perché non ricordava le carte che erano uscite. Non andavamo mai lontano dalla riva perché intimoriti dalle persistenti urla delle mamme che sembravano sirene sull’orlo di una crisi di nervi. Poi sul pomeriggio presto, tutti in macchina per anticipare i torpedoni del ritorno dov’era frequente sentire il “gufo” nel motore (così chiamavamo quel forte fischio quando andava in ebollizione l’acqua dal radiatore).
Fu così fino a diciotto anni inoltrati, poi gradualmente il distacco, ma sempre respirando i fumi dell’ambiente in cui vivevo che si è calcificato dentro la mia struttura molecolare. Se pur rinascessi ed avessi l’attuale maturità, non credo avrei scelto un’altra strada immaginandola migliore, magari più comoda. Ciò che ha dato maggiore impulso alla mia crescita sana ed equilibrata è sicuramente il meraviglioso rapporto d’amore che ho visto tra i miei genitori attraverso abbracci improvvisi e carichi di passione autentica, leggermente goffi, ma efficaci per noi che li vedevamo. Ho anche molto criticato mio padre perché non si è mai mostrato un amico col quale avrei voluto parlare, ma forse è stato meglio così perché mi ha insegnato con il suo esempio che l’onestà e la parola data vale più di qualsiasi altra ricchezza materiale.
Tornando alla famosa istantanea d’altitudine, rivedo il giorno del nostro matrimonio. Mia madre diceva che l’uomo e la donna nascono il giorno in cui si sposano. Da quel giorno iniziano le tappe in salita, i gran premi della montagna. È da quel momento che i muscoli si tendono ed inizia la competizione con te stesso, con i tuoi limiti, con il tuo fisico che deve svernare dalla comodità di tanta pianura percorsa. Allora se proprio dovessi rinascere preferirei ripartire proprio dal giorno del mio matrimonio per avere chiaro che il lavoro necessario è quello da fare su se stessi, perdonando e perdonandosi, e ricominciando a pretendere risultati senza troppe distrazioni. 
Il sole intanto picchia forte e quasi non vedo più nulla da quest’altezza. Come stordito mi ritrovo con la mente sul divano di casa a fissare il tavolo con le sedie intorno che mi comunicano fortissime emozioni. Ripenso a chi si è seduto lì per tanto tempo, ai loro volti, i loro sorrisi, i loro rumori, le sedie riempite dai figli adolescenti che arrivano tardi per la cena. A volte gli oggetti si animano, e mi tornano alla mente quei meravigliosi sorrisi di Teresa, quelle uscite ingenue e disarmanti di Giovanni che voleva sempre colpire la nostra attenzione. Ed anche i rimproveri e le correzioni per indicare loro come si doveva stare a tavola e come ci si deve abituare al servizio.  
Il contesto ci influenza ma non ci costringe, resta sempre intatta la nostra libertà di compiere il bene facendo meglio ciò che già conosciamo. Forse la vita non è un progetto da completare né tantomeno un problema da risolvere, ma più semplicemente una somma infinita di rapporti interpersonali che hanno bisogno della nostra preparazione per essere affrontati convenientemente. Credo che da quel giorno in cui più o meno consapevolmente abbiamo detto “si” ad un’altra persona, comincia il nostro vero allenamento che riguarda principalmente noi stessi. Ognuno di noi, ogni tanto, dovrebbe salire in alto per avere una prospettiva più allargata, ricca di maggiori elementi, che aiutano ad imbullonare meglio i propri obiettivi.
Scendo finalmente verso valle, con una gran voglia che arrivi settembre per rimettere la barca in mare e proseguire con rinnovato slancio, ma stavolta senza perdere di vista il mio allenamento e la mia condizione umana di figlio di Dio. Intanto la tecnologia avanza imperterrita e si sommano tutte le invenzioni che ci hanno permesso di passare così velocemente dalla mitica polaroid all’era digitale. Purtroppo per l’essere umano non funziona così. Tutti i nostri miglioramenti non si sommano ma hanno la necessità di essere riconfermati ogni volta, ogni giorno, ogni mattina, correndo il rischio di dover ricominciare spesso e magari proprio dallo stesso difetto.

Pubblicato su ZENIT

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